Psichiatria di comunità |
Il termine «psichiatria di comunità» si riferisce a una modalità organizzativa volta a offrire una gamma completa e integrata di servizi psichiatrici opportunamente dislocati nel territorio per rispondere adeguatamente ai diversi bisogni di salute mentale espressi dalla popolazione residente e per garantire una facile accessibilità. Tale modalità organizzativa, semplice nella sua enunciazione essenziale, si basa però su di un modello "teorico articolato e complesso, su valori, politiche, pratiche, esperienze e modalità di rapporto terapeutico che si sono compiutamente sviluppate solo dalla metà del '900 in poi e che hanno traghettato la psichiatria, nei suoi aspetti assistenziali, dall'era manicomiale a quella della moderna public health. Le origini della psichiatria di comunità possono essere rintracciate già nel cosiddetto «trattamento morale», diffuso a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e caratterizzato da un atteggiamento umanitario e rispettoso verso il malato di mente e da un approccio terapeutico attivo, coinvolgente, ottimistico e orientato alla salute, che oggi si definirebbe «riabilitativo». Ma nella seconda metà del XIX secolo e in tutta la prima metà del XX il grande sviluppo e la diffusione del manicomio hanno sancito il monopolio della grande istituzione per la custodia e, come ci si augurava, ma con non molte aspettative, la cura delle malattie mentali. La psichiatria di comunità ha iniziato a muovere i primi passi solo dopo la Seconda guerra mondiale, e per potersi affermare ha dovuto lottare strenuamente contro il manicomio attraverso un lungo processo di deistituzionalizzazione. Il manicomio godette di un lungo, incontrastato successo anche e certamente per il fatto che incorporava tutte le funzioni di un sistema psichiatrico, e cioè l'intervento d'urgenza, la diagnosi, la terapia, la presa in carico successiva e la riabilitazione in un'unica struttura opportunamente situata in un luogo isolato: non a caso, spesso si trattava della riconversione di un lazzaretto. Il superamento del manicomio richiese che tutte le funzioni precedentemente in esso concentrate, sotto una direzione medica assoluta, venissero assicurate da nuovi servizi, separati e inseriti nel contesto della comunità e con il personale organizzato in équipe multiprofessionali. I motivi del passaggio da un sistema psichiatrico basato sul manicomio a uno inserito nella comunità furono molteplici. Negli anni '50 e '60 del '900 sia nella comunità scientifica che nel vasto pubblico incominciò a farsi strada una nuova consapevolezza sugli effetti nocivi della permanenza in manicomio. Si stavano accumulando evidenze testimoniali e scientifiche che il manicomio causa regressione nei pazienti, contribuendo alla cronicità, piuttosto che promuovere salute. R. Barton (1959) coniava il termine «nevrosi istituzionale» per descrivere la sindrome tipica dei ricoverati in manicomio caratterizzata da apatia, mancanza di iniziativa, perdita di interessi. E. Goffman (1961) fornirà una descrizione avvincente e convincente dell'istituzione totale smascherandone i meccanismi sociali responsabili della trasformazione del nuovo entrato in un paziente psichiatrico cronico. Per questi contributi e per il susseguirsi di episodi scandalosi di sovraffollamento, grave degrado sanitario e sociale e violazione dei diritti umani riportati dai media, la liberazione dell'internato dall'istituzione manicomiale era divenuta un'esigenza sociale condivisa che favori il coagularsi di un vero e proprio movimento di deistituzionalizzazione trainato dagli operatori psichiatrici più progressisti e radicali. Nei paesi anglosassoni si sviluppò il movimento dell'antipsichiatria, guidato da leader carismatici e discussi come R. Laing in Inghilterra e Th. Szàsz negli Stati Uniti, psichiatri ribelli che si opponevano alla psichiatria ufficiale in quanto ritenuta responsabile dell'internamento manicomiale e di pratiche coercitive piuttosto che terapeutiche. In Italia il movimento venne guidato da F. Basaglia, psichiatra veneziano che, un;i volta nominato direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1961, attrasse un nutrito gruppo di seguaci motivati e decisi assieme ai quali, nel giro di qualche anno di attività frenetica e rinnovatrice, abolì pratiche disumane e lesive della libertà, abbatté le barriere del manicomio permettendo la libera circolazione dei degenti tra reparti e all'esterno, e mise in atto una politica attiva di dimissioni. Con un pragmatismo sorprendente per la tradizione italiana, Basaglia e il suo gruppo seppero tradurre in pratiche reali i principi dell'antipsichiatria, che nei paesi di origine rimasero invece ideali rivoluzionari di una minoranza assediata. Il gruppo si costituì poi in associazione prendendo il nome di Psichiatria Democratica, che esiste e opera tuttora, ottenne l'appoggio politico dei partiti del centrosinistra e dell'opinione pubblica creando le premesse culturali, politiche e professionali-organizzative per la riforma psichiatrica del 1978. A cavallo del 1970, infatti, principalmente ad opera del gruppo di Basaglia, ma anche di altri gruppi ancora, si moltiplicarono in diverse città italiane le esperienze concrete di apertura e rinnovamento del manicomio e dello sviluppo di servizi psichiatrici alternativi. Se la psichiatria di comunità è stata a lungo preparata dal movimento di deistituzionalizzazione, il suo varo nei diversi paesi è stato di regola sancito da mutamenti legislativi. Il primo a muoversi fu il Regno Unito, con il Mental Health Act del 1959; seguirono poco dopo gli Stati Uniti con il Community Mental Health Centers Act del 1963, voluto dal presidente Kennedy. Entro la fine del secolo una sessantina di nazioni sulle 160 che forniscono dati all'Organizzazione mondiale della sanità avevano in qualche modo riformulato la legislazione in tema di salute mentale (Oms, 2001). L'Italia promulgava la sua riforma psichiatrica nel 1978 quasi a sorpresa, in quanto il movimento antiistituzionale aveva creato tutte le premesse, ma dal punto di vista legislativo le iniziative languivano dopo una parziale riforma attuata nel 1968. Nel 1977 però il Partito radicale, già noto per le iniziative referendarie su divorzio, aborto e diritti civili, riusciva a mettere insieme le firme necessarie per indire un referendum abrogativo della legislazione psichiatrica esistente, quella che aveva istituito i manicomi e che risaliva al 1904. Per evitare il referendum, il governo nominò precipitosamente una commissione che stese un progetto giusto in tempo per evitare le urne: la legge venne approvata il 13 maggio 1978 come legge n. 180. Basaglia non faceva parte della commissione, venne solo interpellato occasionalmente, ma l'influenza del suo pensiero e della sua opera sui contenuti della riforma è così palese che popolarmente la legge è tuttora soprannominata Legge Basaglia. Le caratteristiche principali della riforma erano le seguenti: 1) proibizione di costruire nuovi ospedali psichiatrici e di utilizzare gli esistenti come divisioni psichiatriche degli ospedali generali; blocco dei ricoveri negli ospedali psichiatrici, comprese le riammissioni, salvo una deroga per i primi due anni per gli ex pazienti dell'ospedale che facessero espressamente richiesta di riaccoglimento. La dimissione dei degenti, benché auspicata, non venne però imposta, così che non si verificarono quelle situazioni di dimissione selvaggia avvenute e deprecate in altri paesi. Prescrivendo il blocco degli accessi al manicomio, la riforma italiana mirava prioritariamente alla prevenzione dell'istituzionalizzazione, piuttosto che alla deistituzionalizzazione. 2) Sviluppo di servizi territoriali per precise aree di competenza, con il compito di offrire interventi di prevenzione e di riabilitazione, oltre che di cura. Era l'avallo legislativo per l'inaugurazione di un sistema nazionale di servizi di psichiatria di comunità. 3) L'ospedalizzazione, volontaria e, nei casi previsti, obbligatoria, era intesa come un intervento prevalentemente d'urgenza, quando le alternative di trattamento nella comunità non risultassero possibili o fossero già fallite. I servizi ospedalieri, di piccole dimensioni (15 letti), dovevano essere in stretta articolazione dipartimentale con gli altri servizi territoriali per assicurare oltre alla cura la continuità dell'intervento, la prevenzione e la riabilitazione. Comunque, l'aspetto caratteristico e unico della riforma italiana era quello di sostituire il manicomio con i servizi territoriali, anziché affiancarlo. In altri paesi dove il manicomio è rimasto in funzione è successo che i servizi territoriali reclutassero una clientela nuova, meno grave, mentre i pazienti psicotici e gravi continuavano ad essere ricoverati nel manicomio. La legge di riforma venne applicata con tempi diversi e in maniera non uniforme tra le regioni, specie nei primi anni, essendo lasciato a quest'ultime il compito attuativo. Nacquero così malcontento, ripensamenti e proposte di rivedere la legge, che però non andarono mai in porto per lo stesso motivo che ritardava l'applicazione della riforma: la carenza di fondi. Lentamente, dunque, ma senza arresti, i nuovi servizi di comunità vennero attivati: verso la metà degli anni '80 era praticamente completa la rete dei centri di salute mentale di comunità e dei servizi psichiatrici in ospedale generale. Negli anni '90 il sistema venne integrato soddisfacentemente con i servizi residenziali, comunità alloggio per la medio-lungo degenza, e semiresidenziali, centri diurni e day hospital per l'accoglienza diurna e la riabilitazione. Attualmente il sistema psichiatrico italiano di comunità può dirsi completo, di strutture e di personale, integrato con gli altri servizi sociosanitari e distribuito in modo uniforme quanto basta sul territorio nazionale, tanto da essere citato dall'Organizzazione mondiale della sanità come un esempio di attuazione della psichiatria di comunità su scala nazionale con esito positivo. Nel 1994 venne varato il piano sanitario nazionale per la salute mentale che definiva finalmente una struttura quadro per l'organizzazione dei servizi psichiatrici di comunità. Responsabile dell'organizzazione e del coordinamento dei servizi di salute mentale di un dato territorio, tipicamente un'area con una popolazione di circa 150000 abitanti, è il Dipartimento di salute mentale (Dsm). Esso deve essere in grado di provvedere i seguenti servizi specifici considerati essenziali: 1) Un Centro di salute mentale (Csm), che offre interventi di crisi territoriale per evitare il pili possibile il ricorso all'ospedalizzazione, visite ambulatoriali e domiciliari, informazione e consulenza a pazienti e famiglie, assistenza sociale, riabilitazione psicosociale, lavorativa e inserimento nel mondo del lavoro coordinandosi con gli appositi uffici preposti a ciò. Soprattutto costituisce il punto di riferimento e la sede di accesso preferenziale al sistema così da poter offrire una risposta o filtrare le richieste di ricovero ospedaliero. A valle dell'ospedalizzazione si occupa del post-ricovero e del reinserimento nel mondo esterno e nelle attività abituali dei pazienti dimessi. E’ la sede delle équipe territoriali mul-tiprofessionali, caratterizzate dalla mobilità sul territorio e quindi flessibilità dell'intervento, sia di crisi che programmato. I centri di salute mentale devono garantire un orario di apertura diurno, di regola 12 ore al giorno per sei giorni la settimana; una piccola minoranza di Csm offre anche posti letto di crisi, in alternativa all'ospedalizzazione; in orario notturno e in giornata festiva l'intervento d'urgenza viene di regola assicurato dal pronto soccorso dell'ospedale di riferimento, dove interviene lo psichiatra di turno, ma non sono rari i servizi che offrono un'equipe territoriale reperibile sulle 24 ore. 2) Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) in ospedale generale, con una dotazione di un posto letto per 10 000 abitanti, con possibilità di accogliere pazienti in regime volontario oppure obbligatorio. Secondo i principi della psichiatria di comunità, recepiti dalla legge di riforma italiana, il ricovero ospedaliero è considerato un intervento se non straordinario, quanto meno da usare con parsimonia, quando l'urgenza, la gravità della patologia - in genere psicosi acuta -, il rischio di suicidio o di violenza, non consentano il trattamento territoriale che rimane di scelta in tutti gli altri casi. 3) Servizi semiresidenziali, con una dotazioni' di un posto letto per 10 000 abitanti: comprendono i day hospital e i centri diurni. I primi hanno una caratterizzazione più specificamente sanitaria, mentre i secondi costituiscono la sede privilegiata del lavoro riabilitativo di gruppo; 4) Servizi residenziali, con una dotazione di almeno un posto letto per 10 000 abitanti. Si tratta di strutture comunitarie di tipo familiare (20 letti al massimo) per l'accoglienza a medio e lungo termine di pazienti con autonomia limitata e che per diversi motivi non possono vivere in famiglia, o non ce l'hanno affatto. Comprendono comunità a protezione totale, con presenza del personale sulle 24 ore, e quelle a protezione parziale. 5) Gruppi appartamento; sono anche queste strutture di tipo comunitario che accolgono pazienti con autonomia adeguata, tale da non richiedere la presenza quotidiana di personale. L'assistenza e la supervisione vengono comunque mantenute dalle équipe territoriali. Altri compiti di un Dsm comprendono: la «psichiatria di liaison», cioè di consulenza e collegamento con i servizi di medicina generale e le altre branche specialistiche; il coordinamento con i servizi sociali, il privato sociale, il volontariato, l'autoaiuto; l'educazione sanitaria; la raccolta epidemiologica dei dati di utilizzo dei servizi a fini statistici o di ricerca e di programmazione. A livello sovrazonale sono previsti servizi specialistici per le patologie emergenti, come i servizi per i disturbi del comportamento alimentare, per i disturbi della personalità, per i pazienti con doppia diagnosi, ecc. Questa rete di servizi rappresenta l'aspetto operativo, la traduzione organizzativa dei principi della psichiatria di comunità. Tali principi gravitano attorno ai seguenti concetti base (Mosher e Burti, 2002): 1) «responsabilità» dell'equipe territoriale, e degli altri servizi connessi, verso la popolazione servita, un impegno che va al di là del semplice rapporto professionale medico-paziente/servizio-paziente caratterizzato da una contrattualità reciproca che spesso manca nella psichiatria pubblica, dove si incontrano anche pazienti troppo gravi per poter esprimere una richiesta consapevole e altri addirittura non consenzienti. 2) Suddivisione del territorio in «aree di competenza»: non è un semplice frazionamento geografico per motivi burocratici, ma il requisito per assicurare la facile accessibilità ai servizi e la continuità terapeutica. 3) Autorità e responsabilità orizzontali e decentrate: la molteplicità e la variabilità degli interventi territoriali richiede una flessibilità decisionale che solo una struttura organizzativa delle équipe snella, con ampie deleghe, permette; una linea di comando gerarchica risulterebbe immobilizzante. 4) Finanziamento prò capite: è insito nei sistemi sanitari basati su di un Servizio sanitario nazionale come quello italiano; per la psichiatria il finanziamento pubblico è una necessità perché più sono gravi i pazienti, più è improbabile che abbiano i fondi per curarsi o i requisiti per godere di un'assicurazione volontaria. 5) Uso delle risorse esistenti sul territorio: non è solo una necessità per risparmiare, ma strumento d'integrazione degli utenti; le reti, naturali (come la famiglia, il quartiere, il luogo di lavoro) e professionali (gli altri servizi sociosanitari) sono alleati quotidiani in psichiatria di comunità. 6) Non istituzionalizzazione, è l'elemento fondante della psichiatria di comunità, in contrapposizione al sistema basato sul manicomio. 7) Partecipazione del cittadino/consumatore: diritto democratico e allo stesso tempo opportunità per amministratori, operatori e utenti di costruire consensualmente le risposte dei servizi ai bisogni della popolazione. Dal 40 all'80% dei pazienti psichiatrici vive con la propria famiglia, che sopporta quindi i maggiori oneri e che deve essere pienamente riconosciuta come partner. Infine, l'organizzazione dei servizi, la cultura e l'esperienza acquisite nel lungo processo di deistituzionalizzazione rischierebbero comunque di rimanere un contenitore vuoto se non venissero sostenute da valori profondamente radicati negli operatori, da loro condivisi e messi in pratica quotidianamente: sono questi il motore ultimo di tutto quanto il sistema della psichiatria di comunità, che utilizza poca tecnologia, in confronto ad altre branche mediche e chirurgiche, ma molto coinvolgimento interpersonale. Il primo e massimo valore è espresso dal motto del giuramento d'Ippocrate: «Non fare danno»; altri valori fondanti sostengono un atteggiamento verso gli utenti rispettoso dei loro bisogni, desideri e anche dei rifiuti: gli operatori dunque si pongono su di un piano di parità, come consulenti, non come esperti che sanno loro cosa il paziente deve fare. Una nota massima afferma che per quanto autorevole sia l'operatore, l'esperto rimane il paziente, perché è lui che ha un'esperienza diretta di ciò che gli accade. E’ anche importante saper correre dei rischi, altrimenti è difficile succeda qualche cosa di nuovo in terapia e riabilitazione, e avere il coraggio della trasparenza per rendere sempre espliciti i rapporti di potere, che sono insiti alla psichiatria. Infine i giudizi sulla psichiatria di comunità: nonostante l'Organizzazione mondiale della sanità da tempo sostenga esplicitamente l'esigenza di un superamento definitivo del manicomio e un passaggio deciso e diffuso alla psichiatria di comunità, quest'ultima è ancora oggetto di diffidenza e critiche, misurate o virulente, da parte di una corrente della psichiatria che di tanto in tanto trova echi nella letteratura internazionale (Geller, 2002; Leff, 2001). I motivi più frequentemente addotti sono la sua mancata applicazione per un incompleto sviluppo dei servizi, con conseguenti fenomeni di abbandono di pazienti e di eccessivo carico per le famiglie, come è successo paradigmaticamente negli Stati Uniti. In Italia i progetti di modifica della riforma di tipo conservatore sono stati successivamente abbandonati. Il nostro paese, nonostante la proverbiale indolenza nelle riforme istituzionali, è riuscito a mettere in piedi un sistema psichiatrico pubblico che non ha eguali nel mondo per innovatività, completezza, capillarità e tenuta nel tempo. Per il futuro si può prevedere un incremento dei bisogni psichiatrici, degli interventi e delle necessità di assistenza, quindi dei costi: già oggi nel mondo circa 450 milioni di individui soffrono di disturbi mentali o neurologici e nei prossimi vent'anni si stima che la sola depressione passi al secondo posto come causa di malattia e disabilità. Ma l'equivalenza lineare «più bisogni = più servizi» non può reggere, perché oltre un certo limite la rete delle strutture organizzate di un servizio non può espandersi. Anche ammesso che vi siano le risorse economiche sufficienti, vi saranno sempre bisogni che cadranno fra le crepe di questa rete. Sarà quindi necessario un maggiore coinvolgimento della rete naturale e soprattutto dell'utenza in un partneriato che le conferisca un maggiore protagonismo. Solo recentemente gli utenti sono stati accettati come partner, a causa di persistenti pregiudizi sulla loro capacità di discernere e di essere responsabili del loro destino e, come tali, di diventare interlocutori degli operatori e degli amministratori in sede decisionale. Ma dagli anni '90, in alcune nazioni europee, gli utenti possono influenzare il proprio piano terapeutico, sono rappresentati nei consigli di dipartimento di salute mentale, a livello regionale e nazionale (Schene e Faber, 2001), gestiscono centri di ascolto e crisi e si sono costituiti in associazioni collegate da una rete internazionale. I membri del movimento si autodefiniscono in vario modo, a seconda della loro storia e provenienza, ex utenti, consumatori, superstiti, ma condividono l'ideologia e i metodi dell'auto/mutuo aiuto, basati sul reciproco supporto e l'autodeterminazione. Esistono anche esempi di collaborazione tra servizi psichiatrici, privato sociale e movimento dell'autoaiuto: a Verona un programma di questo tipo opera da più di un decennio, è esteso a più di quattrocento utenti e offre iniziative di inserimento lavorativo, accoglienza abitativa reciproca, attività di socializzazione e del tempo libero in orario serale e giornata festiva, quando i servizi riabilitativi psichiatrici sono chiusi (Burti e Guerriero, 2003). E’’ attraverso questi programmi innovativi che la psichiatria di comunità sperimenta di essere meno psichiatria e più comunità. LORENZO BURTI |